Il Dervish “Sineciac” – Moikom Zeqo

Moikom Zeqo
Moikom Zeqo

Moikom Zeqo ka lindur më 3 Qershor 1949, në qytetin e Durrësit. Njihet si arkeolog e si krijues letrar. Më 1971 është diplomuar në Universitetin e Tiranës për filologji dhe letërsi. Më vonë është diplomuar për histori dhe arkeologji si dhe ka bërë studime pasuniversitare në Romë, në Athinë, dhe në Washington D.C. Është Doktor i Shkencave dhe mban Urdhërin e Lartë “Mjeshtër i Madh”. Është autori i 62 librave me poezi, studime arkeologjike, për historinë e artit, si dhe të nje numëri skenaresh për filma. Krijime të Moikom Zeqos janë përkthyer në shumë gjuhë.

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ShkrimNacque nel XVI° Secolo in Albania, nella città di Elbasan, ai tempi del regno di Suleiman il Luminoso.

Non si ricordava più del suo vero nome. Era da piccolo che non se lo ricordava più ed ancora giovine si era consacrato Dervish. Sul suo corpo aveva gettato il mantello della setta. Il petto lo lasciava sempre scoperto, al sole, al vento, d’inverno, d’estate, di notte e di giorno, ed anche quando dormiva. Mangiava, beveva, camminava, i muscoli del petto erano diventati forti e possenti, le ossa sotto la pelle sembravano di bronzo. Sopra, sulla parte sinistra del petto aveva il tatuaggio della Stella di Davide, che viene onorata sia dagli ebrei che dagli mussulmani; mentre sull’altra parte del petto faceva bella mostra di se una rosa tatuata., simbolo questo molto strano, quasi vergognoso per i maschi.

Dunque, questo dervish senza nome lo appellarono “Sineciak” che in turco vuol dire “Braccia nude” e forse bisognava chiamarlo anche “piedi scalzi” poiché camminava sempre scalzo, senza nessun tipo di sandali o ciabatte, non aveva usato mai nemmeno le scorze dei alberi, né i zoccoli di legno di noce. I piedi erano diventati grandi, possenti e dalle sponde del fiume Shkumbin che lui partì senza avvisare nessuno (chi lo fece chiamare? chi li disse di iniziare questo tragitto? dove doveva andare? chi lo aveva spinto?).

Prima di abbandonare Elbasan, città dalle torri, aveva incontrato un pittore cristiano, di nome Onofrio; un pittore dai capelli bianchi che somigliava molto ai profeti biblici. All’imbrunire si sedettero entrambi e presero una tazza di tè nell’anticamera di una trattoria costruita di giunchi intrecciati e stuoie. Il pittore era un tipo tranquillo, dagli occhi azzurri. Disse al dervish che lui aveva le sembianze dei monaci eremiti che lui aveva ritratto, anzi proprio quelle di un asceta vissuto solo in una grotta per ben 60 anni, senza mai aver avuto contatti con nessuno e che veniva chiamato San Onofrio, e questo tre secoli prima della nascita di Maometto, dal quale il pittore aveva preso il nome. Al sentire questo il dervish si fece scuro, divenne nervoso, e gli disse che il profeta dei profeti, Maometto, era stato presente molto prima che Allah creasse il cielo, la terra, la luce e le stelle. Il pittore tacque. Il dervish aggiunse che le pitture erano in essenza maledette, ma il pittore scosse la testa, senza emozioni, i suoi occhi scintillarono, bevete ancora un poco di quel tè rimastoli nella tazza e disse poi al dervish che nella mente dell’uomo anche le parole suscitano pitture, che tu forse le potrai chiamare anche fantasie, ma che importanza possono avere, la pittura non può morire perché, ecco (ed il pittore mostrò con il dito il petto del suo interlocutore) tu hai ritratto sul tuo petto due figure simboliche. Il dervish di slancio, voleva interromperlo, poi penso che si sarebbero separati a mai più rivisti. Divenne notte. Il pittore Onofrio alzandosi oltrepasso la soglia di una vicina casa di mattoni crudi, e scomparve dagli suoi occhi.

Il dervish si diresse allora verso la sponda del fiume, raccolse dei ramoscelli secchi, accese il fuoco, e rimase là sotto le stelle, sognando. Allora le apparve nel sogno il primo dei iman, l’immortale Ali, dall’aspetto corrugato, capelli e barba molto lunghi, che gli ondulavano fin dietro le spalle. L’iman li disse che il sonno era una vita ancora più vera del risveglio, e che l’amore verso l’uomo era l’amore verso tutti gli uomini. Devo raccontarti che oggi parto per il Yemen, ma che sono giunto là fin da ieri, e per non sbagliare apprendi a riconoscere la gente dalle loro sembianze. Ascolta: Nel palazzo del Re cinese Lu, in tempi antichissimi giunse una volta dal mare uno grande e strano uccello. Il Re usci ad incontrarlo. Accompagnarono l’ospite al tempio, gli offrirono vino di miele e papaveri. Era stato ordinato di far suonare musica magica conosciuta come “la cometa sotto la pioggia che canta alle farfalle addormentate”. In seguito diede ordine di sgozzare un toro sacro, e la carne arrostita presentarla all’ospite volatile su un tavolo di marmo bianco. Il Re si consultava continuamente con il libro delle cerimonie regali riservate agli ospiti illustri. Non voleva lasciar perdere nessun dettaglio, ma l’uccello non mangiò, non bevete nulla, non comprese l’ospitalità, e dopo tre giorni spirò. Allora cominciarono i pianti, il Re chiese al suo Dio di mostrarli compassione. La colpa non era né del Re e nemmeno del volatile. Questa parabola racconta dunque l’equilibrio della comprensione, e se non si trova questo equilibrio, allora il corpo umano si dissolve e diventa polvere maledetta che se la porta via il vento.

Il dervish si sveglio all’alba e partì di primo slancio senza nessuna meta, e dopo una settimana con le gambe oramai sanguinanti si lasciò cadere come morto sull’erba di un prato, e cadde nel sonno. Le parve di sentire un nitrito. Apri gli occhi, un cavallo nero con una balma bianca in fronte, che non si seppe da donde era venuto, restava chino sul dervish. Gli occhi del cavallo erano pieni di amorevolezza. Una forza mistica obbligò il dervish a montare sul cavallo, e passando attraverso un campo di cactus, pieno di grossi lupi come bufali che gli stavano tutt’intorno, ululando, ma che non potevano avvicinarsi. Una forza invisibile li fermava, li impauriva. Vicino al campo c’era un largo fiume dalle acque cristalline. Il dervish si stupì ma poi comprese. Anche il cavallo guardava sé stesso nell’acqua e si spaventava. Allora il dervish smosse l’acqua limpida e montò di nuovo sul cavallo. La bestia questa volta non reagì, non vedendo più rispecchiata la propria immagine. Questa divenne una lezione di concreto esempio e cioè che non possiamo entrare in Dio se non riusciamo a far scomparire la nostra stessa immagine, il nostro ego. Il nostro dissolvimento nel Signore vuol dire perdita di noi stessi.

Allora il dervish continuò a viaggiare per ben 13 anni consecutivi fino alle alture innevate del Tibet, alle paurose pagode di Calcutta, alla città di Efeso, a Gerusalemme ed alla Mecca, fece ritorno e si isolò per tutta la vita al tempio della setta dei bektashi di Gallata ad’ Istanbul; scrisse dieci libri chiamati “Gulsen – i Irfan” (“Il Rosaio Gnostico”), libri ancora custoditi fino ai nostri giorni nell’archivio di Top-Kapi.

Nel secolo XIX li prese in mano e li lesse lo scienziato enciclopedista Albanese Sami Frasheri che rimase sbalordito; prese appunti ma morì senza essere riuscito a pubblicare nulla sulla attività del dervish straordinario. Sappiamo solo che il co-pensiero spirituale e l’esoterismo della nascita erano le sostanze dei suoi libri. Ciò malgrado Sami Frasheri aveva scoperto che i libri in questione avevano legami con il glorioso poema persiano di Mahmud Shabistariu (mori nel 1371) chiamato “Gulsen – i Raz” (“Il Rosaio della Segretezza”), capolavoro persiano del misticismo. Questo misticismo crede in Dio nella forma antropologica (Dio ha mani, viso, piedi, si lava, si siede). In seguito i scienziati mutesiliti proclamarono che queste idee con parti del corpo divino, hanno a che fare con le metafore, la mano metafisicamente indica la potenza, il viso l’esistenza senza inizio e senza fine; la seduta di Dio sul trono indica lo specchio metafisico della dominazione di Dio, il misterioso legame tra il transitivo con l’intransitivo che può essere determinato con l’indeterminato, e che potrà essere sentito ma non definito.

Il dervish nei suoi libri aveva introdotto poesie e distici per una lontana città alle sponde di un fiume, dove lascia ad immaginare che si trattasse del suo paese natale, di Elbasan. Si dice anche che il dervish chiuse gli occhi e passò ad altra vita più degna all’età di 99 anni. I suoi discepoli le fecero il rito del lavaggio del corpo e videro che il tatuaggio della stella di Davide si era rimpiccolito, mentre le figura della rosa si era ampliata, tanto da coprire l’intera superficie del corpo. Era proprio il tipo di tatuaggio rosso, impossibile e guardarlo per intero. Solo un talento pittorico nelle mani dei angeli ribelli poteva aver fatto una cosa simile, il che vuol dire che i manoscritti del poeta ed i premurosi scritti rituali avevano raddoppiato la flora delle rosa sulla pelle del corpo. Dicono che dopo la sepoltura, sulla sua tomba sbocciarono solo rose, forse le rose del suo tatuaggio che la forza mistica dell’onnipotente poterono farle diventare rose vive. Oramai tante rose si trovano sul sacrario del dimenticato dervish albanese, tanto che il fusto della prima rosa, che irruppe dal suo petto lasciato sempre allo scoperto per l’intera vita, anche dopo la sua morte, era diventato il tronco di un albero quattrocentesco… di rose… .

Përktheu Robert Cipo

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